Riservatezza e oblio nell’era informatica

Il diritto alla riservatezza è un diritto c.d. assoluto ed in quanto tale indisponibile, propriamente connaturale alla sfera personale di ciascun individuo ed implicante la piena facoltà di godere di apprezzabili spazi di intimità. La tutela apprestata dal nostro ordinamento giuridico a tale situazione soggettiva trova il proprio frastagliato fondamento in fonti normative di diverso rango, tra le quali un ruolo di primazia è rivestito dalla Carta repubblicana oltre che dalla centralissima Carta dei diritti fondamentali U.E., sottoscritta a Nizza nel dicembre del 2000 (si v. gli artt. 7 e 8). Accanto alla copertura costituzionale offerta dal legislatore costituente ex artt. 2 e 3, disposizioni queste ultime sancenti, rispettivamente, il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo e il principio di eguaglianza formale dei membri della civitas, il diritto al rispetto della vita privata e familiare trova attuazione indirettamente anche nell’inviolabilità del domicilio nonché nella protezione della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, beni giuridici la cui limitazione, ai sensi degli artt. 14 e 15 Cost., è sottoposta al vincolo rafforzato della c.d. doppia riserva, di legge e di giurisdizione. È di chiara evidenza la circostanza che la materia della riservatezza tout court considerata sia logicamente posta a salvaguardia della dignità delle persone fisiche, soggetti di diritto a ben vedere reputati, in contrapposizione ai pubblici poteri, deboli dall’apparato ordinamentale e depositari di spettanze qualificate fin dall’antichità come meritevoli di tutela (si pensi, a titolo esemplificativo, alla capillare attenzione dedicata dai Redattori del codice civile del 1942 alle regole, dettate per ragioni di decoro, sicurezza ed igiene, sulla distanza legale tra costruzioni innalzate su fondi finitimi ex artt. 873 e ss., ma soprattutto agli artt. 900 e ss. relativi alle luci e vedute delle abitazioni). Si aggiunga che gli odierni assetti della società consumistica e l’avvento di internet hanno imposto un faticoso ripensamento del diritto dei consociati “ad essere lasciati soli” nella sua originaria configurazione, posta l’innegabile intrusione che i social network spiegano nella vita dei singoli.

Pacifico risulta difatti come, con lo sviluppo tecnologico, si sia assistito ad una compressione del diritto alla c.d. privacy, essendo oramai divenuta prassi ordinaria la visualizzazione e successiva acquisizione di dati, perfino personalissimi, del privato cittadino (ad es. tramite l’utilizzo di App, liberamente scaricabili e fruibili da parte di chiunque, ovvero la possibilità di acquistare in maniera eccessivamente agile apparecchiature di “pseudospionaggio”, quali i droni).  Particolarmente pericoloso dal punto di vista sociale risulta anche lo sviluppo delle piattaforme telematiche, che trattengono e rielaborano informazioni strettamente delicate, con l’altamente plausibile nocumento dell’immagine e del livello reputazionale soprattutto di celebrità televisive, di personaggi ricoprenti delicate funzioni istituzionali o comunque, per un motivo o per un altro, noti al pubblico.

Vi è da dire, en passant, che anche la progressiva opera di digitalizzazione della giustizia civile, inaugurata con d.l. 179/2012 conv. con l. 221/2012, espone ad un serio e concreto rischio le parti di una vicenda processuale, le quali, constatata l’assoluta indispensabilità del passaggio per la corretta instaurazione del contenzioso telematico, sono facilmente rintracciabili attraverso l’immissione delle loro generalità o di altri dati identificativi nel sistema PEC.

In ogni caso, il primo provvedimento normativo adottato dall’Italia in materia di privacy risale al 31 dicembre del 1996, un d.lgs. in pieno recepimento della direttiva comunitaria 96/ n.9 relativa alla tutela dei dati personali e alla istituzione della banca dati, intesa quest’ultima quale documento contenente informazioni di specifici individui (estratti bancari, ricevute et similia). Ora la banca dati, specie se compilata su di un supporto informatico, rende agevole consultare e comprendere non solo le abitudini o le semplici preferenze personali, ma anche lo stesso modo di vivere del trasmittente e tutto ciò ha portato al parallelo sviluppo di due orientamenti: il primo di tipo liberal-permissivo, mentre il secondo dal carattere maggiormente conservatore, imperniato sul previo ottenimento del consenso del soggetto cui i dati da acquisire si riferiscano.

Il risultato a cui si pervenne in origine fu che il consenso sarebbe stato necessario solamente nel caso in cui il trattamento del dato digitale non avesse fatto emergere un interesse “privato” della persona coinvolta, altrimenti in presenza di detto interesse il consenso all’utilizzo delle informazioni si sarebbe profilato logicamente superfluo. Il successivo d.lgs. 30 giugno 2003 n.196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) ha determinato, invece, il superamento del ruolo centripeto occupato dall’elemento consensuale; difatti, il suddetto Codice ,da leggere unitamente al Reg. europeo 2016/679 consacrante il principio di c.d. liceità, trasforma il primordiale diritto “ad essere lasciati soli” nel diritto ad essere informati analiticamente sul trattamento dei propri dati sensibili (l’art 7, al quale si rinvia, contiene un sorta di vademecum sulle pretese e poteri spettanti all’interessato al trattamento).

L’insieme delle riflessioni in parola può (forse) nel suo piccolo contribuire ad offrire un valido spunto circa il rischio corso dai consociati ogni qual volta essi si debbano interfacciare, per le più disparate esigenze della vita quotidiana, con il mondo dell’informatica, sottolineando il bisogno di prestare una elevata attenzione nel fruire dei servizi digitali messi a disposizione della collettività. A giudizio di chi scrive, le principali problematiche legate alla, moderna e quanto mai tecnologicamente evoluta, “società del rischio” sono riassumibili, essenzialmente e senza alcuna velleità di completezza, nella scarsa sicurezza dei traffici telematici (a cui il legislatore ha tentato di rimediare sul piano civilistico con la previsione di puntuali “regole tecniche” per l’apposizione della c.d. firma digitale allorché un soggetto decidesse di sottoscrivere, ad esempio, un contratto informatico, mentre su quello politico-criminale con l’introduzione di figure di reato congegnate ad hoc), nei poco nitidi limiti posti dal potere Legislativo ai competenti apparati statali nell’effettuare incursioni segrete nella sfera privata di individui sottoposti ad indagini preliminari (si cfr. la tormentata disciplina del c.p.p. in tema di utilizzazione e relativa pubblicizzazione di intercettazioni telefoniche), e, infine, nella inadeguata capacità reattiva e di controllo dello Stato in ordine alla liceità o meno dei comportamenti degli utenti di internet, con la conseguente oggettiva responsabilizzazione degli   hosting providers, proprietari del “muro”, ex art. 2050 del c.c. per omessa adozione di cautele idonee a scongiurare il verificarsi di un danno ingiusto nell’esercizio di attività di natura pericolosa (v., quale leading case, la sentenza del Tribunale di Milano Google c. Vivi Down del 12 aprile 2010).

Degne di menzione, inoltre, si palesano le profilature attinenti al problematico inquadramento del diritto all’oblio, argomento complementare della privacy e che, si potrebbe dire, intrattiene con la stessa un intimo rapporto di genere a specie.

Innegabile appare constatare come l’istituto dell’oblio assurga nell’attuale panorama sociale, notoriamente contrassegnato dall’ineluttabile pervasività della tecnologia e dei nuovi mezzi di comunicazione, i quali potenzialmente potrebbe arrivare a squarciare, se mi è permesso mutuare una metafora di schopenhaueriana memoria per adattarla al contesto che si considera, il “velo di Maya” dei segreti di una intera collettività, al rango di indispensabile strumento di protezione dei privati, che risultino danneggiati nell’onore e nella reputazione. Si consideri a tal proposito che, e ciò rappresenta constatazione piuttosto banale, uniformarsi ai minimi standard di tutela del predetto diritto imposti dall’U.E. agli Stati membri risulta, nonostante la presenza nel nostro Paese di un Garante per la protezione dei dati personali (cfr. art. 154 d.lgs. 2003 n. 196), obiettivo molto difficile da attuare oggigiorno, e ciò per via della inarrestabile diffusione “a macchia d’olio” delle notizie circolanti sul web.

Fa espresso riferimento al diritto all’oblio il Reg. comunitario del 2016, il quale prevede, ai sensi dell’art. 17, che l’interessato abbia la possibilità di ottenere la cancellazione dei dati che lo riguardano, con speculare obbligo di rimozione da parte del titolare del trattamento da adempiere senza ritardo ingiustificato e al ricorrere di uno specifico motivo tra quelli indicati nel disposto dell’articolo de quo. La cancellazione, però, non può essere richiesta nel momento in cui il trattamento si renda necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione garantita ex art 21 della Costituzione o ancora per l’adempimento di un dovere giuridico, ovvero per il raggiungimento di scopi di carattere pubblico e per l’esercizio di un diritto in sede giudiziale.

Dunque, parecchio delicata si palesa l’operazione di bilanciamento demandata all’autorità giudiziaria e volta a stabilire la prevalenza, caso per caso, tra il diritto di cronaca del giornalista, tipica forma in cui si manifesta la libertà di espressione del pensiero, ed il diritto dell’interessato a vedere le proprie vicende personali dimenticate. L’attuale giurisprudenza di legittimità, onorando la propria funzione nomofilattica, ha tentato di segnare i confini, invero labili, oltre ai quali l’esercizio della cronaca integrerebbe gli estremi identificativi di fatti illeciti, dalla rilevanza talvolta penale. In via di estrema semplificazione le condizioni da onorare per fruire della causa di giustificazione considerata sono sostanzialmente tre: – l’utilità sociale dell’informazione; – la verità oggettiva dei fatti narrati; – la forma “civile” dell’esposizione, vale a dire non deve arrivare a ledere la reputazione della persona coinvolta. Per concludere, si aggiunga che le Sezioni Unite Civili hanno, di recente, puntualizzato icasticamente la distinzione tra cronaca, considerata socialmente utile in re ipsa, e mera attività di rievocazione storiografica di eventi passati (cfr. sentenza Cass., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681, in merito alla ripubblicazione su di un periodico sardo di una notizia di uxoricidio avvenuto diversi anni prima),essendo quest’ultima tollerata soltanto ove venga svolta in guisa tale da non far identificare il protagonista della vicenda, la cui compromessa dignità a distanza di molto tempo beneficia, nella generalità delle ipotesi, del fisiologico affievolimento della memoria collettiva.

Articolo del Dott. Federico Pellegrino (Dott.federicopellegrino@gmail.com) 

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